Il paesaggio borbonico di Terra di Lavoro

Il tentativo della monarchia borbonica di contrastare l’arretratezza feudale del paese e l’accentramento della proprietà feudale a Napoli si concretizzò con l’introduzione di riforme economiche e sociali ispirate alle idee illuministiche che si proponevano di conseguire: ”...la modernizzazione della macchina statale ed il potenziamento delle istituzioni laiche; lo sviluppo economico; la realizzazione di una società più equa e più stabile...”[55]. Se e in quale misura questi obiettivi siano stati  conseguiti è tuttora argomento di discussione. 

E’ innegabile comunque che, anche se in maniera contraddittoria, i governi di Carlo e Ferdinando IV di Borbone apportarono originali e importanti trasformazioni nell’Italia meridionale,[56] in campo economico, giuridico, commerciale, militare. Furono incrementate le opere pubbliche, incoraggiati le arti e gli scavi archeologici, si cercò di limitare lo strapotere dei baroni e l’incremento della proprietà ecclesiastica.

Per rimuovere la struttura feudale del territorio, era ben chiaro agli intellettuali e agli aristocratici illuminati dell’epoca il ruolo che l’agricoltura avrebbe dovuto svolgere per la rigenerazione del tessuto sociale. Domenico Grimaldi[57], illuminista impegnato, allievo di Antonio Genovesi[58], figura autorevole dell’illuminismo economico e tecnico,  nella sua opera “Piano di riforma per la pubblica economia nelle province del Regno di Napoli e per l’agricoltura delle Due Sicilie”,  in base all’esperienza della sua fattoria sperimentale a Seminara in Calabria, sosteneva ”...la necessità di nuove tecniche agricole, di un adeguato sistema di irrigazione,…di conquistare i campagnoli più intraprendenti alla causa della produzione...”. Studiando il “vivere civile” e la “felicità” dei cittadini, egli elaborò un piano di ammodernamento agricolo per iniziare la rivoluzione dell’economia “campestre” introducendo le pratiche “rustiche”, che erano già una realtà negli altri Stati “italiani”. 

Consentendo all’agricoltura di applicare nuovi metodi e conseguire miglioramenti tecnici, si compiva un’opera illuminata d’istruzione e di rigenerazione del tessuto sociale, a cominciare dalla base, ossia dall’attività primaria dell’agricoltura. “...D’altra parte lo stesso sovrano dava esempio di migliorare l’agricoltura nelle terre di sua proprietà o destinate a siti di delizia della real casa, facendovi praticare tutt’i nuovi utili trovati, ed introducendo le necessarie macchine...”[59].

Le strategie di recupero, di costruzione e di valorizzazione del territorio in area campana, l’acquisizione di terreni trasformati prima in riserve di caccia e successivamente in siti reali, abbelliti con casini e residenze reali[60], lo sviluppo di una rete di infrastrutture che collegavano i siti reali tra loro e con la capitale, la bonifica della pianura e la ristrutturazione dei regi lagni, il progetto di una capitale nell’entroterra[61], l’incentivazione delle attività produttive primarie, soprattutto nei siti reali di San Leucio e di Carditello, sono tutti argomenti presi in considerazione dall’economista Ludovico Bianchini[62], nella “Storia economica del regno di Napoli”.



[55] S. Woolf, La storia politica e sociale in Storia d’Italia, Torino, Einaudi 1974, III, p. 80.

[56] cfr. B. Croce, Storia del regno di Napoli, Bari Laterza, 1984 passim; A. Massafra, Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società, istituzioni. Bari 1988 pp. 17,19.

[57] Economista (1735 - 1805). Nel  Regno di Napoli,  fu nominato assessore al Supremo consiglio delle finanze. Per i suoi interessi per l'economia e la tecnica agricola fu in rapporto con le maggiori società economiche europee, e introdusse importanti riforme nella conduzione delle sue proprietà di Seminara. Scrittore ricco e problematico, è autore di un Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra (1770), e di un Piano di riforma per la pubblica economia delle provincie del Regno di Napoli (1780).

[58] Filosofo ed economista (1713 - 1769). A Napoli dove, dopo aver indossato l'abito talare, si era recato nel 1738, ascoltò le ultime lezioni di G. Vico. Dal1741 al 1745 insegnò metafisica all'università e poi etica fino al 1753. Ma la sua libertà nell'insegnamento e la pubblicazione della Metafisica (1743-47) lo avrebbero portato alla condanna per eresia se non fosse stato protetto da C. Galiani, prefetto degli studî. Egli continuava tuttavia a dimostrare ossequio per le dottrine della Chiesa, pur manifestandosi nella sostanza seguace dell'empirismo lockiano. Sono di questo periodo le sue opere filosofiche: Disciplinarum metaphysicarum elementa (1743; 2a ed. in it. 1766);Elementa artis logico-criticae (1745; 2a ed. in it. 1766). Dopo il 1754 si dedicò soprattutto all'economia, e partecipò attivamente all'azione rinnovatrice del governo. Ottenuta in quell'anno la prima cattedra di Economia pubblica, con le Lezioni di commercio (1765-67), G. gettò le basi della cosiddetta "scuola napoletana", proponendo una consistente revisione della politica economica dello stato napoletano basata su una fusione equilibrata di alcuni aspetti teorici del mercantilismo con elementi delle nuove correnti fisiocratiche e liberiste. Altre opere: Meditazioni filosofiche (1758); Lettere filosofiche (1759);Lettere accademiche (1764); Logica per li giovanetti (1766); Metafisica per li giovanetti (1766);Diceosina (1766; 2º libro, postumo, 1777).Fu lui ad affermare che << la ragione non è utile se non quando è diventata pratica e realtà; né ella divien tale se non quando tutta si è diffusa nel costume e nelle arti, che noi l’adoperiamo come nostra sovrana regola, quasi senza accorgercene >>.

[59] L. Bianchini, Della storia delle finanze del regno di Napoli, III ed. Napoli dalla stamperia reale, 1859 p. 367.

[60] G. Alisio, op. cit., Roma 1976. L’appartenenza organica dei siti reali alla politica di controllo del territorio messa in atto dai Borbone è evidenziata anche in G. Cilento, La metropoli agraria napoletana nel secolo XVIII, Napoli 1983.

[61] M. Colletta, Il comprensorio storico-urbanistico. Metodologia ed esemplificazione di lettura (le valli del Volturno), Padova 1991 pp. 458-479.

[62] Economista (1803 - 1871); prof. all'Università di Napoli, uomo politico e alto funzionario della monarchia borbonica. Diresse il Progresso (1834-37), patrocinò riforme liberali e scrisse buoni saggi economici (Principî sul credito pubblico, 1827; Storia delle finanze del Regno di Napoli, 1835, 3a ed. 1859; Storia economica civile della Sicilia, 1841; Principî della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica, 1855).


5.1 La Real Tenuta di San Leucio

La Real Tenuta di San Leucio sorgeva sull’omonima collina posta a nord est della reggia ed era nata proprio come luogo di svago. 

Oltre ad ospitare l’esperienza manifatturiera con il villaggio operaio voluto da Ferdinando IV, diventò un’azienda agraria improntata a moderni criteri agronomici[63] applicati alle diverse colture, alcune tradizionali come la vite e l’olivo, altre legate ad esigenze più recenti. Fu introdotta,  infatti, la coltivazione di ortaggi e frutta preferiti dai sovrani, di asparagi e ananas, ed incrementata quella del gelso, legata alla produzione della seta, poi lavorata nei setifici leuciani. 

Gli Acquaviva, principi di Caserta, nella metà del '500, vi avevano costruito un castello, adibito a casino di caccia, chiamato "Belvedere" per la vista panoramica della reggia di Caserta eparco, del Vesuvio e della marina del golfo. 

Belvedere di San Leucio
Belvedere di San Leucio

Belvedere di San Leucio

Nella seconda metà del '700 il feudo fu acquistato da Carlo di Borbone come riserva di caccia e quando egli fu richiamato in Spagna, ne proseguì la strategia territoriale il figlio Ferdinando IV. 

Il primo interessamento per San Leucio risale  al 1773, quando la proprietà fu ingrandita, recintata e munita di un casino destinato al riposo durante l’attività venatoria, diventando la meta preferita del giovane re. 

Nel 1778 il tragico episodio della morte del primogenito Carlo Tito spinse il re e la consorte ad allontanarsi da San Leucio , destinandolo ad uso più funzionale. 

Il re Ferdinando, illuminato dagli studi di Gaetano Filangieri[64] e Bernardo Tanucci[65], ebbe,  infatti, l'idea di trasformare l'antico casino baronale in reggia-filanda. Ne diede incarico a Collecini e  aprì le porte della sua casa in collina agli artigiani della seta, avviando un’inedita convivenza: da un lato le eleganti stanze reali, dall'altra le macchine rumorose che lavoravano e tessevano la seta. 


La sala delle feste lasciò spazio alla chiesa per la comunità e attorno all'edificio adibito alla lavorazione della seta furono realizzate la scuola normale, le abitazioni per operai e maestre, le stanze per la trattura, filatura e tintura della seta.

Nasceva Ferdinandopoli, città ideale in cui dare attuazione a riforme sociali, introducendovi la manifattura della seta. 

Nel 1789, Ferdinando IV promulgò anche il "Codice delle leggi" che regolavano in modo innovativo la vita e il lavoro della comunità leuciana, un esempio di socialismo ante litteram.

In esso venne sancita: la parità di diritto per i coloni, l’annullamento della differenza tra uomini e donne nelle successioni ereditarie, il guadagno proporzionale al merito, l’uguaglianza nell’abbigliamento, l’istruzione obbligatoria dai sei anni in poi, l’abolizione dei testamenti, le eredità lasciate a parenti o al Monte degli Orfani. 

Vennero anche abolite le doti per le figlie insieme al divieto assoluto dei genitori di interferire negli affari di cuore dei figli. Un'unica limitazione: poteva effettuare il matrimonio chi dimostrava buona capacità nel lavorare la seta come arte da difendere e tramandare.  Il cittadino così si sentiva parte attiva di una comunità di uguali e al tempo stesso protagonista essenziale della lavorazione della seta in armonia con il contesto. 

Con lo Statuto Leuciano, re Ferdinando IV aspirava ad essere ricordato come riformatore illuminista. Probabilmente per questo motivo fu tenuta nascosta l'identità di colui che scrisse il Codice che venne, invece, stampato segretamente e tradotto in più lingue. 

San Leucio è un esempio concreto di come i Borbone costruivano i nuovi borghi per sperimentarvi impianti industriali. 

La politica riformatrice non è solo data dal codice delle leggi, ma è visibile anche nell’assetto urbanistico e architettonico del borgo, non ispirato all'assolutismo monarchico, ma ai principi di uguaglianza. 

La stessa città era stata organizzata intorno alla piazza della seta e il portale settecentesco fungeva da accesso alla reggia-filanda e ai quartieri con le case operaie. Lo stile era razionale, funzionale e semplice, con decori essenziali. Il complesso si basava su forme geometriche quadrate e rettangolari non curvilinee, prerogativa dell'ambiente naturale collinare in cui era inserito. I fabbricati, infatti, seguivano i dislivelli del colle e i giardini venivano realizzati su terrazzamenti. 

Il sogno di una città ideale con teatro, ospedale, cattedrale e aree verdi finì con la fine del '700 e con l'avvento della rivoluzione francese. Ne rimangono oggi il borgo e soprattutto gli artigiani e i maestri che ancora tessono la seta.



[63] M. R. Iacono, La storia del sito in Lo bello vedere di San Leucio e le manifatture reali, ESI Napoli 1998 p. 77-102.

[64] Pensatore politico (1752 -  1788), terzogenito di Cesare F. principe di Arianello; alfiere nell'esercito borbonico (1766-69), lasciò poi il grado per darsi agli studî e, per breve tempo (1774), all'avvocatura. Allora concepì il disegno di ridurre la legislazione a unità di scienza normativa, e lo tradusse poi in atto nella Scienza della legislazione (8 voll., 1780, 1783, 1785, 1791). L'opera propugna assennate riforme in materia di procedura penale, combatte la feudalità, auspica un sistema di educazione pubblica d'ispirazione platonico-rousseauiana, pone l'esigenza di una codificazione delle leggi. In economia il F., sotto l'influsso, oltre che di Genovesi, di Verri e dei fisiocratici, convinto dell'importanza fondamentale dell'agricoltura, propugnò la rimozione di ogni ostacolo giuridico, fiscale ed economico al suo sviluppo e alla libertà del commercio dei suoi prodotti e sostenne l'imposta unica sul prodotto della terra. Tutte queste proposte, conformi ai postulati fondamentali dell'illuminismo, soprattutto francese (mentre l'omaggio reso a Vico risulta in fondo esteriore), spiegano la fortuna che arrise all'opera del F. per oltre un quarantennio, e le traduzioni che se ne fecero in tedesco, francese, spagnolo, inglese e svedese, nonché le polemiche che l'accolsero (tra l'altro, nel 1784 fu posta all'Indice). All'opera del F., inoltre, si richiamarono gli uomini del 1799 per promuovere le riforme che solo in parte riuscirono a realizzare. Nel 1822 apparve una ristampa della prima traduzione francese della Scienza della legislazione, con ampio commento di B. Constant, che polemizzava con il F. da un punto di vista liberale.

[65] Uomo politico (1698 - 1783). Rivestì autorevoli ruoli presso la corte borbonica napoletana, e fu fautore deciso di riforme, più per inclinazioni politiche che per adesione al razionalismo illuministico. T. legò il proprio nome alla lotta anticuriale, che unificò tutte le forze innovatrici. Avversario dell'assolutismo pontificio, fu uno dei principali ispiratori della soppressione dei gesuiti (1773), concordemente voluta da tutte le corti borboniche. Prof. di diritto nell'università di Pisa, sostenne in vari opuscoli (tra il 1728 e il 1731) l'opinione tradizionale della provenienza da Amalfi delle Pandette pisane. In seguito, due sue memorie politico-giuridiche (l'una in favore dell'indipendenza verso l'impero, l'altra contro il diritto di asilo) lo rivelarono a Carlo di Borbone, allora duca di Parma, che lo invitò a seguirlo a Napoli, dove T. fu suo consigliere autorevolissimo: consigliere del Collaterale, divenne poi ministro di Giustizia (1752), e infine ministro degli Esteri e della Casa reale (1754). Quando Carlo passò a regnare in Spagna (1759), T. acquistò una posizione predominante nel governo napoletano, sia durante la reggenza, sia nei primi anni del regno di Ferdinando IV. Non pochi furono gli abusi e i privilegi che egli riuscì a sopprimere nella vita del regno. A lui si deve il trattato austro-napoletano (1759) e la mancata partecipazione della corte borbonica di Napoli al patto di famiglia del 1761. Ma la regina Maria Carolina, mal soffrendo il suo predominio nel governo, riuscì alla fine a sbalzarlo dal potere (1776).


5.2 Il Real sito di Carditello

Fu perfettamente inserita nella riorganizzazione territoriale[66]  anche la tenuta di Carditello, vasto territorio pianeggiante, sito in Terra di lavoro a metà strada tra Napoli e Caserta. La “difesa di Cardito seu Carditello”[67] fu ritenuta, infatti,  da Carlo di Borbone particolarmente adatta, oltre che alla caccia, al “perfezionamento Razza de’ cavalli”, per cui dal 1744 la prese in locazione per 2800 ducati l’anno[68].

Ferdinando IV proseguì il progetto paterno ampliando la tenuta con diversi territori “…ora acquistandoli ora rivalendosi di diritti che le leggi gli accordavano…”[69].

La “Real Delizia” apparteneva al Conte d’Acerra e Carlo la volle acquistare perché adatto all’attività venatoria[70] e all’allevamento sia dei cavalli che dei bufali, dalle cui femmine si ricavava, e si ricava ancor oggi, il latte necessario per la produzione della “mozzarella”[71]; da qui l’edificazione del caseificio.

Al centro dei terreni vi era poi una “masseria” chiamata “La Foresta”, un deposito di grano, fieno e prodotti agricoli. 

Come nel caso di San Leucio, da questa rustica costruzione si volle ricavare un vero e proprio “casino reale” per accogliere la corte durante i soggiorni dedicati alla caccia.

Fu, però, Ferdinando IV, fautore dell’intervento, che si premurò di avviare l’attività agricola. A partire dal 1784 furono  portati a termine i lavori di costruzione dello stallone,della scuderia, delle abitazioni dei vaccari, della stalla delle bufale, della torre dove avveniva la manipolazione dei latticini e del granaio. 

Ai due lati del casino si costruirono otto torri, destinate, ai piani superiori, ad abitazioni per i lavoratori. Inoltre venne eretto l’ampio stadio per le feste campestri e le corse dei cavalli, delimitato nel retro da due vaste corti quadrate. L’intera tenuta era di complessivi 1750 ettari.

Carditello doveva contrapporsi a San Leucio, almeno nelle intenzioni di re Ferdinando: a differenza dell’esperienza innovativa del setificio, essa avrebbe dovuto mettere in risalto la sua adesione all’antica politica agricola. 

Al piano terra si trovavano le cucine, l’armeria e le sale per il personale. Attraverso due scale simmetriche si accedeva al piano superiore dove erano gli ambienti destinati ad accogliere la famiglia reale e il salone per i ricevimenti utile per i ritrovi che venivano organizzati al rientro dalla caccia.

Particolarmente interessante era poi la piccola chiesa, di stile tipicamente settecentesco, alle cui decorazioni, come a quelle della palazzina centrale, lavorarono i maggiori artisti della corte, fra cui sicuramente Hackert. Arazzi di Pietro Duranti[72], su cartoni di Fedele Fischetti, [73] arricchivano il salone maggiore, in cui era affrescata anche la volta.

I siti reali, quindi, non erano soltanto luoghi di ozio e svago in cui il signore profondeva capitali per fastose costruzioni ed elaborati giardini, ma quasi un’azienda agricola moderna, in cui il sovrano “illuminato” investiva nelle trasformazioni agrarie, per uno sfruttamento ideale del territorio, coniugando il ”bello” e l’”utile” secondo i dettami del Settecento.

Del resto questo accadeva anche nel resto d’Italia, anche se con modalità e protagonisti diversi. Si pensi alle grandi ville signorili sorte dalla seconda metà del XVII e nel XVIII secolo in Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto, oltre al ruolo che assunsero i “centri di riorganizzazione del paesaggio agrario in grandi aziende padronali”[74].

Nella vastissima tenuta di Carditello erano stati costruiti anche i comodi rurali necessari al ricovero degli animali, alla lavorazione dei prodotti e alle abitazioni del personale, mulini, masserie con cappelle, “cavallerizze” con giardini, frutteti, un’azienda di apicoltura e case rurali. L’organizzazione di tale tenuta dunque, forse più di quella di San Leucio, ben rappresenta l“azienda signorile” a cui precedentemente si faceva riferimento ed evidenzia il ruolo svolto dalla monarchia borbonica nella trasformazione del paesaggio agrario mediante l’attuazione del progetto di incentivazione dell’attività agricola che a Carditello prevedeva l’introduzione di nuove razze, quali le “vacche lodigiane”, il miglioramento delle razze equine, l’allevamento bufalino, l’ammodernamento del sistema d’irrigazione con l’introduzione della “tromba a fuoco” per innalzare l’acqua del Volturno.



[66] R. De Fusco, L’architettura della seconda metà del 700 in Storia di Napoli, Napoli 1978 v. VII p. 400.

[67]“Il termine “difesa” deriva dal processo di usurpazione delle terre pubbliche e demaniali da parte dei feudatari che appunto operavano una chiusura a difesa, una recinzione di queste terre escludendole dagli usi comunitari. Contro questa pratica i sovrani di Napoli avevano ripetutamente posto delle proibizioni, ma il fatto stesso che fossero ripetute indica che non sortivano alcun effetto” E. Sereni, Agricoltura e mondo rurale in Storia d’Italia, Einaudi Torino 1972 p.210-211

[68] Platea de’ Reali Siti di Carditello e Calvi, s.d. (ma dopo il 1834, cfr. p. 48 della stessa Platea) Archivio della Reggia di Caserta v. 3571

[69] Platea de’…op. cit. pp 9-9

[70] Gli acquitrini della zona costituivano l’habitat ideale per alcune specie di volatili come fagiani e beccacce; inoltre non era raro incontrare cinghiali, volpi, lepri e perfino cervi.

[71] Termine che deriva dall’operazione di “mozzare” la pasta casearia.

[72] Arazziere, diresse la Manifattura reale di Napoli. Fra le sue opere più note, la serie di arazzi con storie di Don Chisciotte.

[73] Pittore, di cui le opere più importanti si trovano a Napoli, nella chiesa dello Spirito Santo e in quella  di S. Eligio Maggiore. Lavorò per il Palazzo Reale di Napoli, per la Reggia di Caserta e per l’arazzeria.

[74] E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza Bari 1972 p. 289.

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